Mauro Lorenzon
Quando la semplicità non è banalità diventa eccezione.
Gli anni 70 videro l’immissione nel mercato dei cosiddetti vini moderni, che prenderanno definitivamente piede negli anni 80. Mi ricordo in particolare le lezioni ai corsi A.I.S. tenute dal prof. De Rosa, precursore della vinificazione in bianco; ci spiegava come si doveva interpretare il vino del futuro, indicando la strada ai produttori: un vino di color bianco carta. Per quanto riguarda invece l’induzione all’uso abnorme della vinificazione in barriques, sia per i bianchi che per i rossi, ne imputo la responsabilità politica al Maestro Luigi Veronelli, che incitava vignaioli e cantine ad usare, provare e sperimentare l’uso del carato come amava definirlo, per non avere timori reverenziali e sudditanza verso i cugini francesi che da sempre hanno usato questo vaso vinario, riconosciuto come artefice del cosiddetto gusto internazionale cancellando del tutto la tradizione italica della botte medio-grande di rovere slavonia.
I nuovi vini risultano essere poco veri e puri rispetto ai vini del prima, allora più semplici anche se complessi, sicuramente più digeribili di quelli moderni, esteticamente più eleganti con gusti e profumi intensi di grande impatto sensoriale, impatto stupefacente anche se omologato. Non a caso il sottoscritto per descrivere un vino fatto alla vecchia maniera, ispirato, ha coniato un aforisma che recita: «Quando la semplicità non è banalità diventa eccezione» frase di cui, per rispondere a qualche polemica, mi assumo in pieno la paternità !
Fu agli inizi degli anni 80 che si affacciò nel MondoVino italiano la nuova enologia, intesa come razionalizzazione della cantina attraverso strumenti e macchine enologiche in grado di produrre vino in maniera più igienica rispetto agli anni precedenti. Sono apparse quindi le prime vendemmiatrici automatiche, le presse pneumatiche, vinificatori a temperature controllate, nonché pratiche enologiche innovative basate sull’uso di lieviti selezionati e seguite dall’utilizzo nella fase di vinificazione e specialmente in quella di imbottigliamento di antiossidanti e solforose So2. Mi ritorna in mente un Vinitaly; correva l’anno 1984, quando con Giacomo Bologna e Graziano Bastianon assaggiammo, tranquillamente seduti alla Bottega del Vino di Verona, un Soave di un futuro noto produttore. Quel bicchiere si presentava al profumo con netti riferimenti di confetto e caramella nonché di acetone, il solvente usato dalle donne per pulire le unghie dallo smalto e da Big-Babol, la gomma americana più in voga al tempo, al gusto suadente, morbido e vellutato chiaramente ricavato da mosto primo fiore senza contatto con la buccia. Quel vino non era terribile nel gusto e nell’aroma, come potrebbe parere dalla descrizione, ma presentava un bouquet più da profumiere che da cantiniere, avendo frustrato i sapori dell’uva, tenuti quasi nascosti.
L’Italia del vino, pertanto, ha conosciuto un’evoluzione tecnologica, il cui risultato finale ha portato a prodotti differenti rispetto al passato, vini che esprimevano un gusto appiattito con velleità di carattere internazionale, l’esatto contrario di quello che accade in Francia… Abbiamo scimmiottato male! I nostri cugini doltralpe infatti, non hanno mai trascurato le peculiarità territoriali e, negli ultimi 300 anni, hanno sempre rispettato il gusto del Terroir, preoccupandosi più del vigneto e delle aree vocate che della cantina… Anche in Italia per fortuna esiste uno zoccolo duro, che io chiamerò vignaioli del vino puro-niente che non sia inerente.
1986, anno dello scandalo del metanolo. Chi scrive aveva aperto già da quattro anni una delle prime mescite-enoiteche d’Italia dove era possibile stappare tutti i vini presenti in lista anche per un solo calice. Il 90% dei viti-vinicoltori durante e dopo lo scandalo ebbero meno difficoltà a mescere e vendere i vini di qualità , che per una questione psicologica, essendo un po più costosi, erano considerati più genuini (di questo non si potrà mai essere certi almeno fino a quando non verrà reso obbligatorio per legge di riportare gli ingredienti nell’etichetta). Il vino inspiegabilmente è rimasto uno tra i pochi alimenti ad essere esonerati dall’obbligo di indicazione. Io resto fedele al motto del Maestro Veronelli che recita: «è meglio il peggior vino di contadino che il miglior vino d’industria».
Una nuova consapevolezza spinge parecchi produttori a cimentarsi nella sfida della viticoltura biologica e biodinamica, segnando l’inizio di una volontà di cambiamento per portare in vinificazione uva sana e matura. Le regole in cantina invece rimangono ancora labili… Non sono ancora molte, infatti, le cantine che tengono fede a un’onesta connessione fra terreno-vigna-uve vocate, trasformate in vino con la minor manipolazione possibile; pertanto i giusti vinificheranno i mosti senza l’aggiunta di lieviti selezionati, con pochissime aggiunte di solfiti e solo se estremamente necessari ed escluderanno pratiche di sofisticazione, anche se ammesse. Gli ottimati sono quelli che per vinificare usano vasi vinari tradizionali, neutri, non cedenti gusti e sapori, questi sono i produttori di vino che sento di dover difendere incondizionatamente. Solo perseguendo questo cammino potremo avere vini più genuini e peculiari, creati nel rispetto dell’uomo e del suo ambiente.
Si può affermare altresì che dagli inizi degli anni 90 si è avuta in generale una razionalizzazione nel Vigneto Italia, una viticultura più curata e attenta alle situazioni pedoclimatiche. Di contro, grandi scontri politici sul come mantenere il vigneto, da una parte il partito dei fitofarmaci per le malattie della vite e per il diserbo, dall’altro i filosofi della viticoltura biologica e biodinamica, estremamente contrari alla difesa della vite e dell’ambiente con mezzi non naturali, sostenitori di pratiche arcaiche di difesa non invasive, con prodotti biologici omeopatici e diserbi, se necessari, con falce e zappa. Al massimo andrà usato del verde rame contro la peronospora, giustamente diluito per non influire successivamente nella vinificazione.
“Mauro Lorenzon”
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